“Dove sono i miei pancakes?”. E’ bastato questo messaggio ‘postato’ su Facebook dal computer di casa a scagionare completamente il suo autore, un ragazzo di 19 anni, dall’accusa di furto. La storia di Rodney Bradford, così si chiama questo teenager newyorchese, ha offerto lo spunto al sito del New York Times per raccontare come cambia la giustizia ai tempi di internet, visto che per la prima volta una traccia lasciata da un imputato su un social network assume il valore di alibi davanti a un tribunale.
Il 17 ottobre, alle 11,49, Rodney chattava dal computer della casa paterna, nella 118/a strada, ad Harlem. In particolare chiedeva sul web dove fossero i suoi pancakes, le popolari frittelle, alimento base della prima colazione di molti americani. L’indomani il ragazzo veniva arrestato con l’accusa di aver compiuto un furto, il giorno prima, nel palazzo dove vive abitualmente con la matrigna, che però si trova a Brooklyn, cioé dall’altra parte della città.
A quel punto il giovane s’é affidato a un avvocato e ha chiesto alla Corte di verificare, attraverso la proprietà di Facebook, che il suo messaggio era stato mandato dal computer del padre, negli stessi minuti in cui è avvenuto il furto.
La giuria non ha avuto alcun dubbio e lo ha dichiarato innocente. “E’ il primo caso, a quanto mi risulta, in cui una traccia lasciata su Facebook viene ritenuta da una Corte un alibi valido”, commenta John Browning, un avvocato di Dallas, specialista nelle cause legate in qualche modo alle nuove tecnologie. “Sinora – prosegue Browning – l’attività degli imputati sui social network aveva fornito prove decisive agli inquirenti per dimostrare la loro colpevolezza. Ora invece, con Rodney, è capitato il contrario”.
Le prove fornite da Facebook e Twitter sono ormai diffusissime nelle cause di divorzio, nelle controversie legali legate al mobbing negli uffici e nei casi di spionaggio industriale. Un uso talmente vasto da riaprire l’eterno dibattito sui rischi della sicurezza all’interno della rete. Joseph A. Pollini, docente di criminologia al John Jay College mette in guardia gli inquirenti a non fare troppo affidamento su questo tipo di prove: “Basta avere un username e una password valida per inserire dati in una pagina di Facebook al posto di un’altra persona.