Si tratta di un sistema stellare dalle caratteristiche sorprendenti: un relitto dell’epoca della formazione della Via Lattea. Se ne sono accorti alcuni ricercatori che, sotto la guida dell’Università di Bologna, hanno deciso di usare un nuovo occhio hi-tech per penetrare le fitte nubi cosmiche che lo avvolgono. Al lavoro hanno preso parte anche alcuni studiosi dell’Istituto nazionale di astrofisica che ha pure collaborato allo sviluppo della tecnologia ottica impiegata.
Si chiama Terzan 5 ed è il primo “fossile galattico” scovato dagli astronomi nel cuore della Via Lattea. Si tratta di un grande e affollatissimo sistema stellare che, a differenza degli altri normalmente popolati da stelle tutte relativamente simili e coeve, risulta invece formato da diverse generazioni di astri, di età e composizione chimica variabili. Potrebbe essere, dicono gli scienziati, quel che resta di un antico sistema proto-galattico 500 volte più grande, che 12 miliardi di anni fa si unì ad altri dando origine, come mattoni primordiali, alla Via Lattea.
L’affascinante ipotesi è avanzata questa settimana dalla rivista scientifica Nature che presenta i risultati di una ricerca coordinata dall’astrofisico Francesco Ferraro dell’Università di Bologna (Unibo), che ha visto impegnati anche altri studiosi dell’ateneo emiliano e del locale Osservatorio astronomico Inaf. “E’ stato come se, nell’esaminare attentamente una roccia, ci fossimo accorti di avere in realtà sotto gli occhi il frammento fossile di un essere mastodontico, testimone di epoche remote e prezioso custode di segreti del passato” spiega Ferraro. La diversità delle stelle che compongono Terzan 5 (circa 2 milioni) parla di una storia molto più travagliata e complessa di quanto finora si immaginasse e le differenti concentrazioni di ferro ci dicono che un tempo doveva essere molto, molto più grosso di oggi.
Almeno un miliardo di volte il sole. Abbastanza pesante cioè da trattenere le polveri, i gas e i metalli sintetizzati nel corso della sua evoluzione. “Queste caratteristiche fanno sospettare che Terzan 5 sia il relitto di un antico sistema proto-galattico che ha contribuito alla formazione del cuore della Via Lattea”, aggiunge Barbara Lanzoni (Unibo). La scoperta delle caratteristiche di Terzan 5 è così destinata, secondo gli studiosi, a dare più forza alla teoria corrente sulla formazione delle galassie, che le vorrebbe risultato della agglomerazione di sistemi stellari pre-esistenti e già strutturati, con una propria identità e storia, anziché del collasso gravitazionale di un’unica nube di gas.
Il risultato pubblicato da Nature è stato ottenuto grazie ad un prototipo di sistema ottico d’avanguardia, Mad, montato in via sperimentale per pochi mesi su uno dei telescopi più grandi del mondo, il Very large telescope, nel deserto del Cile, gestito dall’Osservatorio europeo del sud (Eso).
Uno dei componenti di questo nuovo gioiello hi-tech è stato ideato, realizzato e collaudato da un gruppo di astrofisici delle strutture INAF di Padova e Firenze. Mad, che vede nell’infrarosso e corregge le distorsioni dovute all’atmosfera terrestre, è stato in grado non solo di penetrare la spessa coltre di nubi che oscura la parte centrale della nostra galassia, ma anche di produrre la più grande immagine di Terzan 5 mai ottenuta prima ad una simile risoluzione. È stata proprio questa foto a rivelare, inaspettatamente, la presenza di astri di diverse generazioni. “Ci siamo accorti – racconta Emanuele Dalessandro (Unibo) – che c’erano almeno due distinte popolazioni di stelle: un gruppo più luminoso con un’età di circa 6 miliardi di anni, ed uno più numeroso e meno brillante, di 12 miliardi di anni”. Non è la prima volta che Terzan 5 viene indagato dagli astronomi, ma l’esistenza di queste popolazioni “multiple” era finora sfuggita a tutti, anche ad osservazioni effettuate con l’Hubble space telescope. “E’ stato solo grazie alla straordinaria qualità e grandezza dell’immagine ottenuta con Mad che siamo stati in grado di identificare questa doppia famiglia stellare. Speriamo adesso che gli enti europei continuino la sperimentazione di questi prototipi capaci di strappare preziose immagini anche alle regioni più inaccessibili dello spazio” aggiunge Alessio Mucciarelli (Unibo).
Grazie ai colleghi statunitensi coinvolti nella ricerca, gli scienziati bolognesi sono ricorsi anche alla potenza dei 10 metri di diametro del telescopio Keck situato sulla cima del vulcano Mauna Kea alle isole Hawaii. “Queste ulteriori osservazioni ci hanno permesso di misurare immediatamente la composizione chimica delle due popolazioni stellari e di scoprire che esse differiscono anche nel contenuto di metalli!” commenta Livia Origlia (Inaf – Osservatorio astronomico di Bologna).
Come molte scoperte, anche questa è arrivata quasi per caso. “In realtà – ammette Ferraro – Terzan 5 ci interessava per la sua elevata popolazione di pulsar, che sono stelle di neutroni molto dense, resti di supernove ormai estinte”.
“La nostra scoperta aggiunge un tassello importante al complesso puzzle della formazione della Galassia e apre la caccia ad altri sistemi stellari “fossili” che potrebbero essere ancora nascosti nelle nubi impenetrabili del cuore della Via Lattea. In questi oggetti, come in Terzan 5, e’ scritta la storia della formazione delle strutture cosmiche nell’universo appena nato” conclude Ferraro.
Il team di ricerca
Sono 12 gli scienziati che hanno contribuito alla scoperta.
Nutrito il gruppo italiano: oltre a Francesco Ferraro, che ha coordinato il lavoro, ci sono Barbara Lanzoni, Emanuele Dalessandro e Alessio Mucciarelli, tutti del Dipartimento di astronomia dell’Università di Bologna. Ad essi si aggiungono altri due giovani: Giacomo Beccari dell’Agenzia spaziale europea e Elena Valenti dell’Osservatorio europeo del sud, anche loro però cresciuti nei laboratori dall’Alma Mater. Altri tre ricercatori bolognesi dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf): Livia Origlia, Michele Bellazzini e Gabriele Cocozza. Coi nove italiani hanno lavorato anche tre studiosi americani: Mike Rich della Los Angeles University, Robert Rood della Virginia University, e Scott Ransom dell’Osservatorio nazionale di radio astronomia della Virginia.